Per affrontare qualsiasi discussione sulla stepchild adoption è necessario partire dalla sua definizione. Anche se il termine è stato ultimamente spesso accostato alle prerogative gay e al dibattito prima dell’approvazione della norma sulle unioni civili, in realtà la stepchild adoption, che potremmo tradurre con “adozione del figlio affine”, in Italia esiste dall’entrata in vigore della L.n. 184/1983 e consente, con il consenso del genitore biologico, l’adozione del figlio del coniuge se ciò corrisponde all’interesse del minore.
L’adozione non è comunque automatica: l’iter previsto prevede un accurato controllo preliminare del Tribunale sull’idoneità affettiva, la capacità educativa, la situazione personale ed economica, la salute e l’ambiente familiare di colui che chiede l’adozione. Fino al 2007, si parlava di stepchild adoption solo in relazione alle coppie sposate, ma la Giurisprudenza (Il Tribunale di Milano e quello di Firenze per primi) hanno esteso tale facoltà anche ai conviventi eterosessuali, ritenendo esservi l’interesse del minore a che il rapporto affettivo fattuale corrispondesse anche al corrispettivo rapporto giuridico, caratterizzato da diritti e doveri.
Recentissima (27 maggio 2016) è invece la decisione della Corte d’Appello di Torino, Sezione minori, a favore di due coppie omosessuali in tema di adozione incrociata, dopo che le domande erano state respinte in primo grado.
In sintesi, la Corte ha affermato che la coppia omosessuale può adottare un bambino a patto che quest’ultimo sia il frutto dell’unione di uno dei due partner da un precedente legame eterosessuale: può quindi legittimamente essere accolta la domanda di un omosessuale, uomo o donna che sia, di adottare il figlio del proprio compagno. Nel primo dei casi trattati dalla Corte, il bambino del quale veniva chiesta l’adozione era cresciuto all’interno di un progetto di genitorialità condivisa, ove la compagna della madre biologica svolgeva ad ogni effetto un vero e proprio ruolo di madre nei confronti del minore. Veniva messo in evidenza il legame affettivo instauratosi, del tutto simile a un vero e proprio vincolo genitoriale, tale per cui la coppia di donne costituiva per il minore il punto di riferimento primario materiale ed affettivo.
La pronuncia della Corte d’Appello di Torino è particolarmente interessante poiché richiama due orientamenti giurisprudenziali della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Dritti dell’Uomo e analizza la questione esplicando compiutamente il percorso logico e giuridico che conduce alla decisione di accoglimento della domanda di adozione.
In particolare, ispirandosi alle parole dell’organo di garanzia costituzionale, la Corte di Torino ripercorre la corretta interpretazione della norma ex art. 44 della L. N. 184/1983 che ha quale intento quello di favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore e i parenti o le persone che già si prendono cura di lui, prevedendo la possibilità di un’adozione pienamente conforme al principio ispiratore di tutta la disciplina in esame, ossia l’effettiva realizzazione degli interessi dei minore.
In casi simili non si tratta infatti di introdurre ex novo una situazione giuridica inesistente, ma di garantire la copertura giuridica ad una situazione di fatto in essere da anni, nell’esclusivo interesse di un minore. Ed è assolutamente condivisibile l’iter logico seguito: la valutazione del miglior interesse del minore non può ancorarsi al legame tra i genitori, ma deve restare concentrato su quello tra genitore e figli.
Ma c’è di più. Perché la Corte di Torino richiama anche la posizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul concetto di “vita familiare” che deve ancorarsi ai fatti e non alle condizioni giuridiche. La “vita familiare” insomma non è subordinata all’accertamento di un determinato status giuridico, poiché discende dall’effettività dei legami a prescindere dal fatto che il nucleo familiare sia formata da un’unione affettiva eterosessuale ovvero tra persone dello stesso sesso. Un orientamento confermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza N. 2490 del 9 febbraio 2015, ove esplicita che il nucleo affettivo relazionale che caratterizza anche l’unione omo affettiva riceve diretto riconoscimento costituzionale dell’articolo 2 della Costituzione e può acquisire un grado di protezione e tutela in tutte le situazioni nelle quali la mancanza di una disciplina legislativa determini una lesione di diritti fondamentali scaturenti dalla relazione in questione. Non si tratta di affermare un diritto a essere genitori o un diritto ad adottare: si tratta di riconoscere e tutelare, nella misura massima consentita, il diritto del minore alla propria vita famigliare.
Si sposta il focus, insomma. Non sulla relazione che intercorre tra i genitori, ma su quello che è il miglior interesse per il minore nell’ambito della tutela di un diritto fondamentale – come tale tutelato dall’Art. 2 della Costituzione – alla vita familiare.
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